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TRIBUNALE MILANO 28 luglio 2005, n. 3062 – Est. Martello – Stie Spa. (avv. ti Beretta, Olgiati e Trifirò) c. FILT CGIL (avv. Moshi)

Art. 28 SL – Rifiuto di consentire ad un rappresentante sindacale lo svolgimento di attività libere, fuori dell’orario di lavoro e in locale aziendale – Comportamento antisindacale – Configurabilità

Costituiscono condotta antisindacale il rifiuto da parte del datore di lavoro di consentire ad un rappresentante sindacale lo svolgimento di attività libere, cioè di attività umane che costituiscano estrinsecazione della personalità umana e della vita di relazione (nel caso di specie, la raccolta di firme per un referendum abrogativo), fuori dall’orario di lavoro e in locali di pertinenza aziendale, nonché la pretesa aziendale di autorizzare preventivamente detta attività.


LA LIBERTA’ E I LIMITI DELL’ESERCIZIO DI UN’ATTIVITA’ ALL’INTERNO DEL LUOGO DI LAVORO DA  PARTE DEL RAPPRESENTANTE SINDACALE  

Nota pubblicata in D&L 2005, n. 4, pagg. 715 e ss.

Il Tribunale di Milano, con la sentenza in esame, ha affrontato la delicata questione della libertà di svolgimento di attività in generale nei luoghi di lavoro e delle sue eventuali limitazioni.
In particolare, appare qui controverso il diritto di un dirigente sindacale impegnato in attività non propriamente sindacali, a fruire di locali di pertinenza aziendale.
Si tratta di un intervento forte sul concetto di libertà di espressione dei lavoratori rilevante ex art. 1 S.L. che ha segnato un ulteriore passo avanti verso una lettura garantistica della norma ed ha rafforzato e consentito  l’accesso a tutele e garanzie statutarie in favore di soggetti impegnati in attività non propriamente sindacali.
1. La libertà di pensiero del lavoratore nell’ordinamento giuridico
Per meglio comprendere quindi il reale significato e portata della sentenza in epigrafe, si rende necessario soffermarsi preliminarmente sul concetto di svolgimento dell’attività libera da parte del lavoratore.
A tal proposito, giova rammentare come l’art. 1 S.L. (libertà di opinione) rappresenta l’archetipo su cui si fonda l’intero impianto normativo dello Statuto dei lavoratori. Tale disposizione, infatti, prevede testualmente che “i lavoratori, senza distinzioni di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.  In tale norma vi è il solenne riconoscimento del diritto del lavoratore, di tutti i lavoratori ad essere trattati sul luogo di lavoro come uomini liberi, con la piena possibilità di manifestazioni di opinioni.
La garanzia della libertà di opinioni nei luoghi di lavoro trova un ulteriore sostegno nel divieto di indagini sulle opinioni del lavoratore sancito dall’art. 8 SL. Nell’architettura della parte dello Statuto dei lavoratori dedicata alla garanzia e alla tutela dei diritti sindacali nei luoghi di lavoro, l’art. 14 costituisce, poi, il pilastro che sostiene l’intero Titolo III (attività sindacale) . L’art. 14, infatti, garantisce a tutti i lavoratori il diritto di costituire all’interno dei luoghi di lavoro associazioni sindacali, di aderirvi, e di svolgere concretamente attività sindacale. Tale disposizione costituisce “una più articolata e approfondita rilettura, sul piano aziendale, del principio stesso di libertà di organizzazione sindacale” . Si rammenta che l’espresso riconoscimento di detta garanzia “all’interno dei luoghi di lavoro” comporta che l’attività sindacale può essere ivi svolta anche al di fuori dell’orario di lavoro.  Orbene, le tre norme citate traggono il loro fondamento e sono una concreta attuazione innanzitutto dell’art. 21 Cost. ove viene enunciato il  principio secondo cui “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” . L’ampio riconoscimento della libertà di manifestazione ed espressione del pensiero contenuto in tale norma fa comprendere, quindi, quale fondamentale rilevanza assuma tale libertà in un regime democratico . Inoltre, le disposizioni citate rappresentano l’attuazione dell’art. 2 Cost. che impegna la Repubblica a riconoscere e garantire “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, quale appunto deve considerarsi l’azienda dove il lavoratore presta la sua attività.
Orbene, la garanzia della libertà di opinione implica che al lavoratore sia consentito scegliere mezzi e tempi opportuni per esprimere il suo pensiero, senza che il datore in linea di principio possa opporsi.
Tuttavia, si rammenta che tale esercizio incontra proprio quei limiti al quale fa esplicito riferimento l’art. 1 S.L. Ciò significa che il lavoratore non può manifestare il suo pensiero in forme o modalità che, secondo il comune apprezzamento, risultino lesive della coscienza e della sensibilità altrui. Inoltre, la libera manifestazione delle opinioni da parte del lavoratore non può in linea di principio avvenire a scapito del normale andamento dell’attività aziendale . Cosicché non può il lavoratore creare impedimenti o difficoltà all’esecuzione della prestazione lavorativa in azienda, né distrarre gli altri dipendenti dal diligente adempimento degli obblighi di lavoro . Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto che il diritto di azione sindacale di cui all’art. 14 non può svolgersi al di là dei limiti di una forma corretta di protesta, che, se può essere considerata legittima quando il dipendente, denunciando alcune condizioni di lavoro, rivendichi un trattamento più favorevole, non è più tale allorché si traduce in espressioni censurabili ed atte a gettare discredito sul datore di lavoro, come nel caso di uno sciopero della fame con contestuale affissione di manifesti di contenuto oltraggioso per il datore di lavoro . Inoltre, la medesima giurisprudenza ha affermato che la distribuzione di volantini di contenuto sindacale, compiuta dal lavoratore dell’azienda al quale il medesimo è addetto, si configura come attività sindacale, il cui esercizio deve in ogni caso realizzarsi senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale, anche ove si ritenga che il volantinaggio sia qualificabile come attività sindacale generica invece che come opera di proselitismo . Pertanto, in tal caso pur non essendovi alcun divieto di svolgere tale attività durante l’orario di lavoro, occorre che essa sia compiuta dai lavoratori in regolare permesso e che, per le modalità e le cautele in concreto adottate, non risulti pregiudicato l’ordinario svolgimento dell’attività produttiva .
Al di là però di tali corrette limitazioni, e qui si arriva proprio al cuore del problema affrontato dalla sentenza in epigrafe, appare evidente in ogni caso, come confermato anche dalla prevalente dottrina e giurisprudenza , che l’organizzazione dell’attività produttiva non può essere tale da impedire l’esercizio dell’attività di espressione dei lavoratori in materia politica, sindacale e religiosa, che costituisce manifestazione della personalità del lavoratore e può avvenire nei luoghi di lavoro che sono nella disponibilità del datore di lavoro: quindi se una determinata organizzazione dell’impresa impedisce l’esercizio di tali libertà – a causa dei ritmi di lavoro o delle condizioni ambientali – è tale organizzazione che dovrà essere modificata in modo da consentire l’esercizio delle libertà medesime .
2. La pronuncia del Tribunale di Milano
Orbene, su tale delicatissima questione si è dunque pronunciato il Tribunale di Milano con la sentenza in epigrafe.
Tale pronuncia trae origine dalla seguente vicenda.
Un’organizzazione sindacale promuoveva ricorso ex art. 28 S.L. nei confronti di una società avverso la decisione della società medesima di rifiutare ad un proprio rappresentante la possibilità di svolgere un’attività non squisitamente sindacale all’interno dei locali aziendali, seppur fuori dell’orario di lavoro. Nella fattispecie, infatti, un rappresentante sindacale aveva dato luogo - fuori dall’orario di lavoro e in locali destinati alla ricreazione - ad una raccolta di firme per promuovere un referendum abrogativo di una legge nei confronti dei dipendenti della società, senza tuttavia richiedere la a quest’ultima una preventiva autorizzazione.
Per tale ragione, la società aveva dunque deciso di infliggere una sanzione disciplinare nei confronti del sindacalista.
Il Giudice di Milano accoglieva con decreto la domanda promossa dall’organizzazione sindacale e dichiarava l’antisindacalità del predetto comportamento della società, ordinandone la rimozione degli effetti.
A seguito dell’opposizione, il Tribunale di Milano, in rigetto delle richieste della società, dichiarava anch’esso antisindacale il comportamento della società, confermando il predetto decreto, e accoglieva la domanda riconvenzionale proposta dall’organizzazione sindacale così annullando la sanzione disciplinare precedentemente inflitta al suo rappresentante.
Con la sentenza in epigrafe, sono state pienamente accolte le argomentazioni dell’organizzazione sindacale in considerazione dei principi di seguito esposti.
Orbene, il Tribunale parte da una necessaria e condivisibile premessa metodologica, negando che la questione di causa debba limitarsi all’attività sindacale sic et simpliciter e alle modalità di svolgimento di essa. Nel caso in esame, il thema decidendum verte, invece,  su “i limiti e le condizioni dello svolgimento da parte del lavoratore di attività libere, cioè di attività umane e della vita di relazione”, e collateralmente se queste “debbano subire limitazioni o essere sottoposte a condizioni qualora si svolgano in locali di pertinenza aziendale e per il fatto di ivi svolgersi”.
Circa l’esercizio delle attività umane dei lavoratori nei luoghi di lavoro, il giudice dell’opposizione rammenta innanzitutto che non necessariamente debbano considerarsi sindacali attività svolte in ambito aziendale e,o realizzate da parte di un sindacalista. Precisazione assolutamente indispensabile, se si considera che nel caso di specie il rappresentante sindacale – autore di una raccolta di firme per promuovere un referendum abrogativo di una legge - ha prima di tutto esercitato un’attività libera. Nel qualificare allora il senso dell’espressione “attività libera” ci si deve interrogare - a detta del Tribunale – se possano essere ammesse limiti e condizioni da parte del datore di lavoro per  lo svolgimento di detta attività in locali di pertinenza aziendale.
Al riguardo, emergono nella fattispecie una serie di dati e circostanze estremamente significative per la collocazione spaziale di tale attività: lo svolgimento al di fuori dell’orario di lavoro, la contestuale presenza dei dipendenti anch’essi fuori del proprio orario di lavoro e, infine, l’assoluta estraneità all’organizzazione produttiva del locale aziendale utilizzato per l’attività in questione, attesa la sua destinazione al riposo e alla ricreazione dei dipendenti.
Ebbene in tale contesto il Giudice critica aspramente “la pretesa della società ricorrente di sottoporre ad autorizzazione una qualunque attività svolta da un qualunque lavoratore nel predetto locale, che non sia lesiva del diritto degli altri frequentatori di fruire del locale per le attività libere alle quali esso è destinato”. Infatti, a giudizio del Tribunale, nella fattispecie la società si è semplicemente limitata ad evocare nei confronti della raccolta di firme attuata dal sindacalista un preteso e generico pregiudizio dell’ordinario svolgimento della vita aziendale e un’asserita interruzione dell’attività dei colleghi, nonché un generico riferimento alla presunta violazione di vigenti disposizione di legge e di contratto.
Tuttavia, non è risultato la sussistenza di un effettivo pregiudizio per l’attività produttiva aziendale, né per qualunque altro interesse tutelato dall’ordinamento.
A tal proposito, val la pena rammentare che qualsiasi scelta imprenditoriale deve essere sempre informata al rispetto della regola del bilanciamento di contrapposti interessi. Infatti, nel nostro ordinamento in forza dell’art. 41, Cost. è sancito sì un generale principio di libertà nell’iniziativa economica del datore di lavoro, ma il suo esercizio  comunque “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno ala sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, con ciò individuandosi una serie di limiti di carattere positivo all’azione imprenditoriale. Tutto il complesso delle norme che compongono lo Statuto dei lavoratori tenta infatti di contemperare tali due opposte esigenze.
Orbene, riguardo il generico riferimento alla violazione di disposizioni di legge, riconosce correttamente il Tribunale, aderendo ad un prevalente indirizzo dottrinario e giurisprudenziale, che “le uniche disposizioni di legge sono quelle richiamate dall’art. 1 dello Statuto dei lavoratori, che garantisce il diritto dei lavoratori a manifestare liberamente il loro pensiero nei luoghi dove prestano la loro opera e a maggior ragione in luoghi diversi da questi, seppur di pertinenza aziendale nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della stessa legge n. 300/70. E detta legge, all’art. 14 pone delle condizioni solo per l’esercizio dell’attività all’interno dei luoghi di lavoro”.
Nel caso di specie, invece, l’attività svolta dal lavoratore non era di natura sindacale, né tantomeno veniva compiuta in un luogo di lavoro.
Si noti che nel nostro ordinamento non esiste un diritto datoriale di supervisione e di approvazione per qualsiasi attività, di qualunque natura, che si svolga in qualsiasi locale di pertinenza aziendale e da un qualsiasi lavoratore (sindacalista oppure no).
Alla luce di tali condivisibili argomentazioni, che richiamano i principi e le regole in tema di libertà di espressione del lavoratore sopra enunciati, il giudice dell’opposizione ritiene del tutto infondata la pretesa datoriale di sottoporre a controllo e condizioni l’esercizio delle libere attività dei dipendenti, fra le quali rientra non solo l’attività sindacale, ma anche quella politica, religiosa e culturale.
Per quanto riguarda, poi, la possibilità di limitazione delle suddette attività in locali di pertinenza aziendale, rileva il Tribunale che “l’esistenza di un locale aziendale destinato all’attività sindacale (…) non preclude che attività analoga sia esercitata (…) in altro ambito aziendale, pur nel rispetto dei limiti sopra richiamati” e quindi senza la necessaria approvazione aziendale, con ciò distinguendosi dalle attività prettamente sindacali previste dallo SL (assemblea, referendum, proselitismo) ove, invece, l’espressa autorizzazione al datore di lavoro è testualmente richiesta (v. in tal senso artt. 20, 21, 27 S.L.).
Nel legittimare un’opzione ermeneutica in senso espansivo, il Tribunale di Milano parte da una qualificazione di attività sindacale in senso ampio: essa non si limita ad una funzione propriamente statutaria - consistente nell’esercizio della libertà sindacale  liberamente consentita su base squisitamente aziendale, quale convocare assemblee (art. 20), indire referendum (art. 21), effettuare affissioni (art. 25), di beneficiare di permessi sindacali (art. 22 e 23) e di speciali guarentigie contro licenziamenti e trasferimenti (artt. 18 e 22) - ma si arricchisce, invece, di una funzione politica che riguarda temi di interesse generale (come è un referendum abrogativo di una legge e la sua promozione), costituenti estrinsecazione della personalità umana e della vita di relazione, nonché direttamente collegati ala partecipazione popolare al governo dello stato ed espressione del principio di sovranità popolare: dal che ne discende la sua non diretta riferibilità alla sfera dei diritti dei lavoratori .  
Ciò detto, se il ruolo di rappresentante sindacale può essere dunque svolto mediante l’esercizio di attività plurime e distinte tra loro (alcune richiedenti l’espresso consenso datoriale, altre liberamente esercitabili senza specifiche autorizzazioni), non si vede allora perché si debba inibire al dipendente (seppur sindacalista) la raccolta di firme riguardante un referendum abrogativo., attesa la natura sindacale latu sensu (rectius,  politica) di tale iniziativa.
In virtù di tale impostazione, il Tribunale ha pertanto avallato la pozione assunta dall’organizzazione sindacale ed ha statuito che “immotivata è la pretesa della ricorrente di inibire al dipendente la raccolta di firme”, con ciò ritenendo - a ragione - comportamento antisindacale il rifiuto ingiustificato da parte del datore di lavoro di permettere, fuori dall’orario di lavoro e in locali di pertinenza aziendale, ad un rappresentante sindacale la raccolta di firme per un referendum abrogativo.
In conclusione, la sentenza in commento pare dunque esaltare e rafforzare il ruolo anche politico assunto dalle organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro, sottolineando con estrema lucidità che, seppur esiste un’attività sindacale in senso tradizionale, da esercitarsi in luoghi aziendali predefiniti e con modalità purtroppo fortemente soggette a condizionamenti datoriali, ciò non toglie che l’attività di un sindacalista possa liberamente esprimersi sotto un’altra matrice (come, ad esempio, per l’esercizio di diritti propriamente politici) ed in differenti spazi aziendali, senza per ciò incorrere in vincoli né limitazioni.

Alessandro Riboldi