IL PARTITO COMUNISTA E LA GUERRA: GRAMSCI E NOI

I comunisti italiani, ancor prima della nascita del Partito
Comunista d'Italia (1921), avevano le idee chiare sulla guerra. A
questa chiarezza aveva dato un contributo decisivo Antonio Gramsci.
Il giovane studioso aveva, infatti, dedicato gli anni del primo
conflitto mondiale alla riflessione sulla guerra e sulla posizione
del Partito Socialista riguardo ad essa. Ne era scaturita
un'analisi, ampia ed articolata, fuori dagli schemi consolidati,
sulla natura e sulla struttura del partito della classe operaia, sui
suoi compiti, che ritorna oggi d'attualità.
Non è un caso che Gramsci abbia sostenuto l'ultimo esame
universitario nel 1915, cioè nell'anno dell'ingresso dell'Italia nel
conflitto. Dopodiché si era gettato anima e corpo nell'impegno
politico e contro la guerra. Aveva assistito con angoscia alla
capitolazione delle socialdemocrazie europee, che avevano
sottoscritto i crediti di guerra dei rispettivi governi borghesi.
Aveva visto sfumare progressivamente il neutralismo del Partito
Socialista Italiano, specie dopo la disfatta di Caporetto, in nome
dell' "unità della nazione" di fronte al nemico "straniero",
invocata, per bocca di Turati, dall'ala riformista del partito. Ma
la sua disapprovazione era diventata maggiore di fronte alla
capitolazione dell'ala massimalista, preannunciata dal passaggio nel
campo avversario da parte di Mussolini. Del vecchio gruppo dirigente
socialista solo una figura si stagliava al di sopra di tutte le
altre, quella di Giacinto Menotti Serrati, anch'egli massimalista,
che aveva mantenuto la sua orgogliosa opposizione alla guerra, pur
fermandosi ad un rifiuto etico.
In un articolo del 1914, Gramsci, pur equivocando sul significato
dell'iniziale passaggio di Mussolini dal "neutralismo assoluto"
al "neutralismo attivo", non capendo, cioè, che quello era il
preludio della conversione del futuro "duce" alle ragioni della
guerra, anzi alla guerra come prosecuzione e strumento privilegiato
di risoluzione della lotta politica, condanna in maniera
incondizionata il sostegno dei partiti della classe operaia alle
guerre volute dalla borghesia per meglio tutelare i propri
interessi. Sostiene, anzi, che il proletariato deve approfittare
delle contraddizioni e delle lacerazioni prodotte in campo borghese
da tali guerre per imporre la propria egemonia, presentandosi come
forza alternativa, capace di prospettare un sistema economico-
sociale diverso, imperniato sulla pace. Così avverrà in Russia, se è
vero com'è vero che il primo atto del governo sovietico sarà un atto
di pace: il ritiro dalla prima guerra mondiale, con la pace di Brest
Litovsk. Nel prosieguo della sua riflessione sulla guerra, Gramsci
prevede con lungimiranza che, se i partiti proletari non saranno in
grado di fare tutto ciò, prevarrà la reazione. E, difatti, il
fascismo si affermerà come strumento del sovversivismo delle classi
dirigenti, che, grazie all'incapacità del Partito Socialista,
trarranno vantaggio dagli esiti nefasti della guerra, ch'essi
avevano voluto.
L'analisi sulla guerra s'intreccia con quella sulla natura e sul
ruolo del partito della classe operaia. Se la deriva "moderata" dei
dirigenti della sinistra italiana non è un caso isolato, bensì una
costante (un precedente ingombrante è rappresentato dalla Sinistra
storica, che, andata al potere dopo l'unità d'Italia, diede vita al
famoso "trasformismo", ciò è dovuto a matrici causali che affondano
fino nelle radici del Partito Socialista. Si tratta, secondo
Gramsci, di un partito dominato dal "dirigismo", dal "leaderismo"-
diremmo oggi. Il gruppo dirigente è costituito da personalità che si
affidano al loro carisma, alla loro oratoria, alle loro capacità
comunicative e demagogiche per irretire il popolo, chiamato ad un
ruolo semplicemente recettivo. Il partito viene visto, non solo dai
riformisti e dai massimalisti, ma anche dagli "astensionisti"
bordighiani, come elaboratore di teorie, che poi vanno "imposte" al
popolo.
Non vogliamo qui strumentalizzare Gramsci per una polemica
contingente, come è successo tante volte nella storia del movimento
operaio e comunista. Vogliamo, al contrario, avviare una riflessione
sulle posizioni gramsciane per verificare la loro attualità, che, a
nostro avviso, è persistente, entro i limiti metodologici posti
dallo stesso Gramsci quando scrive che "trovare la reale identità
sotto l'apparente differenziazione e contraddizione, e trovare la
sostanziale diversità sotto l'apparente identità è la più delicata
incompresa eppure essenziale dote del critico delle idee e dello
storico dello sviluppo sociale".
Anche oggi la sinistra definita antagonista (Partito della
Rifondazione Comunista e Partito dei Comunisti Italiani), presente
in Parlamento, ci dice, così come i socialisti riformisti e
massimalisti al tempo della prima guerra mondiale, che la
partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan è sbagliata, ma
inevitabile: se ne può solo "limitare il danno". Sembra non rendersi
conto che questo conflitto fa parte della più ampia politica
americana di intervento militare nelle aree strategiche del mondo,
specie in quelle caratterizzate dalla presenza di ingenti risorse
energetiche, che rischiano di scatenare la guerra intercapitalistica
del terzo millennio, nonché la reazione violenta, liquidata
sbrigativamente come "terrorismo", dei popoli depredati. Distinguere
tra intervento in Iraq e in Afghanistan è, dunque, assurdo. Si
tratta di due fronti della stessa guerra predatoria a stelle e
strisce. Il governo italiano non può dare un indirizzo di pace al
proprio intervento in Afghanistan, se è vero, com'è vero, ch'esso
si inserisce, e non può non inserirsi, pena il venir meno della sua
stessa ragion d'essere, nell'ambito della politica guerrafondaia
portata avanti dagli Stati Uniti d'America e dalla Nato, suo braccio
armato. La sinistra riformista (Ds) e massimalista (Prc e PdCI)
sembra non rendersi conto che, se le forze del progresso non si
schierano contro ogni guerra imperialista, "senza se e senza ma",
l'umanità intera rischia di vivere in un clima di conflitto
permanente. Anche il cosiddetto "terrorismo", essendo la reazione
dei popoli derubati alla guerra predatoria americana, è destinato
ad aumentare. A livello nazionale, il prevalere della logica
guerrafondaia porta sempre più all'isteria patriottica. L'attuale
sinistra governativa e governista sta facendo il gioco della destra,
sta creando il suo terreno di coltura, sta ponendo le basi, nelle
condizioni odierne, di quella ondata reazionaria che Gramsci
previde come effetto della prima guerra mondiale e che portò al
fascismo. Sta lavorando per far tornare Berlusconi.
Ancora una volta il discorso sulla guerra è strettamente legato a
quello sulla natura e sulla struttura del partito della classe
operaia. Oggi si parla di "partito leggero", "movimentista", tutto
affidato alle capacità di comunicazione mass-mediatica ed al carisma
del "capo". Si ripete l'errore dei massimalisti. L'Italia ha oggi
più che mai bisogno di un partito comunista fortemente radicato in
tutte le pieghe della società, massicciamente presente sul
territorio, nei luoghi di lavoro, nelle associazioni sindacali,
nelle associazioni progressiste. Un partito che, invece di "limitare
i danni" del capitalismo, si renda protagonista di
quella "rivoluzione morale ed intellettuale" di cui parlava Gramsci,
e che cerchi il consenso delle masse su una piattaforma politica e
programmatica alternativa al capitalismo. Un partito che si dedichi
anima e corpo ad una politica di pace e, per ciò stesso,
antimperialista. Un partito comunista, cioè, che tragga alimento per
la propria analisi dal pensiero di Marx, di Lenin e di Gramsci.
Vanno, dunque, contrastati i tentativi, più o meno palesi, di
eliminare dalla scena politica italiana il partito comunista per dar
vita a delle formazioni che rappresentano l'ala sinistra della
socialdemocrazia europea (vedi Sinistra europea o non meglio
definita combinazione rosso-verde).
Antonio Catalfamo