CONFEDERAZIONE COMUNISTI/E AUTORGANIZZATI

COORDINAMENTO NAZIONALE

Milano - 21 giugno 1998

RELAZIONE INTRODUTTIVA

Questa riunione del coordinamento nazionale viene dopo un primo periodo di vita e di attività della Confederazione Comunisti/e Autorganizzati.
Vita ed attività difficile e precaria, in una fase costituente che si colloca in un quadro generale irto di difficoltà, ma comunque sufficiente per un primo bilancio politico. La scelta di misurare immediatamente nell'attività di massa la consistenza del progetto aggregativo ci consente oggi una prima significativa verifica.
Il compito di questo coordinamento nazionale è dunque quello di procedere ad un'analisi approfondita di questa esperienza, individuandone limiti ed errori, per rilanciare riprecisandolo il processo costituente della confederazione. Questa relazione cercherà di offrire alcuni elementi di analisi ed alcune ipotesi di rilancio, come primo parziale contributo in questa direzione.

Questi mesi sono stati ricchi di avvenimenti sia sul piano interno che su quello internazionale.
Innanzitutto la costruzione del polo imperialista europeo ha compiuto un grande passo in avanti. La decisione formale sull'avvio dell'euro in 12 paesi dell'Unione Europea a partire dall'1/1/99 è un passaggio con grandi implicazioni sia sul versante dei rapporti interimperialistici, sia su quello delle politiche dei singoli stati.
Sul primo piano la conclusione della crisi Usa/Iraq ha mostrato il rafforzamento del peso politico dell'Europa che non solo ha imposto una soluzione favorevole allo sviluppo dei propri rapporti economici con l'area mediorientale, ma ha quantomeno incrinato il monopolio americano - inscritto nel "Nuovo Ordine Mondiale" - a dirimere a proprio piacimento ogni controversia internazionale.
Sul piano delle politiche nazionali l'avvio dell'euro rafforza le scelte di stabilizzazione economica e politica. Il grande capitale sta cercando di imporre ovunque le sue scelte sul piano politico ed istituzionale, mentre quella che si autodefinisce "sinistra europea moderata" è il tramite cosciente organizzato di queste scelte (vedi Blair, Clinton, D'Alema).
La concertazione neocorporativa rischia così di funzionare regolarmente e di stabilizzarsi in assenza di un'opposizione politica e sindacale organizzata ai vincoli politici ed istituzionali imposti dagli accordi di Maastricht. Le politiche economiche sono sempre più decise dal FMI, ed ora dalla Banca centrale europea, piuttosto che dai governi nazionali.
In Italia, in ossequio alle esigenze europee, si è anticipato il documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF). Un DPEF ovviamente più leggero nell'entità della manovra ma ben fermo nella direzione di marcia: rilancio delle privatizzazioni, nuove riduzioni della spesa pubblica, ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro.
Nel quadro del rafforzamento dell'imperialismo europeo trova spazio anche il rilancio dell'iniziativa dell'imperialismo italiano. Si assiste così ad un frenetico attivismo del presidente del consiglio e del ministro degli esteri in veste di piazzisti delle merci e soprattutto degli investimenti italiani in mezzo mondo.
Si assiste in particolare ad una forte iniziativa verso l'area mediorientale, le repubbliche ex sovietiche ed i Balcani. E proprio in quest'ultima area l'Italia vede riconosciuto anche un preciso ruolo politico rispetto alla crisi del Kossovo.
Sul rafforzamento del polo imperialista europeo è bene essere chiari anche rispetto ad analisi e posizioni che tendono a minimizzarne la portata ed il significato. Non è che prima di Maastricht non esistesse un imperialismo europeo. Esisteva ed al suo interno esistevano i vari imperialismi nazionali tra i quali quello italiano.
Ma sarebbe davvero miope non vedere oggi il salto di qualità prodotto dall'unificazione monetaria, cui corrispondono politiche economiche, sociali, istituzionali sempre più omogenee. E come non vedere come questo spinga verso politiche repressive del conflitto sociale, di controllo pesante dei flussi migratori ed anche verso la costruzione di strutture militari unificate?
A proposito di quest'ultimo punto è singolare come sia venuta proprio dal Prc la richiesta di un esercito europeo in opposizione all'espansione della Nato ad est. Sono questi gli scherzi che capitano a chi, perdendo una corretta visione dell'imperialismo reale e delle sue contraddizioni, si autodisorienta nei meandri di un superimperialismo avvolgente, privo di riferimenti territoriali e statuali se non quello degli Usa.
Eppure l'attuale crisi tra India e Pakistan ci ricorda proprio due verità che contraddicono clamorosamente la tesi del superimperialismo.
In primo luogo questa crisi mette in evidenza il ruolo dei singoli stati nazionali, mostrando la crisi profonda del "Nuovo Ordine Mondiale" uscito dalla Guerra del Golfo del 1991; in secondo luogo all'interno di essa è possibile leggere i termini nuovi del conflitto interimperialista e le stesse mutate esigenze dell'imperialismo americano.
Su quest'ultimo punto l'analisi andrà sicuramente approfondita, ma non c'è dubbio sulla centralità dell'area asiatica ( anche per la violenta crisi economica in corso) e sull'utilizzo della nuova potenza indiana in funzione anticinese.

In Italia al rafforzamento del governo Prodi dopo l'ingresso nell'euro ha fatto seguito una crisi politica dell'Ulivo e della sua principale componente il Pds.
Un centrodestra zoppicante, in evidente affanno, senza una leadership credibile, ottiene un successo elettorale nelle amministrative e - facendosi forte di questo - decide di affossare le riforme istituzionali che aveva contribuito a scrivere in maniera determinante nella Bicamerale.
Qual è la spiegazione di questi fatti? Al di là delle vicende e dei destini personali di alcuni dei principali protagonisti, che pure pesano, occorre individuare il disegno ispiratore che sta dietro le scelte di Berlusconi o che comunque da quelle scelte prende le mosse.
Si tratta, è ovvio dell'intramontabile disegno centrista, mix quasi inevitabile tra il "Paese normale" configurato dall'alternanza interscambiabile del maggioritario e l'inossidabile trasformismo italiano.
Insomma, il processo di normalizzazione rischia di affermarsi stabilmente, in assenza di opposizione e di forze antagoniste che ne ostacolino la realizzazione; ma chi gestirà tutto ciò non è ancora stabilito ed anzi uno scontro pesante è in atto.
Quello che possiamo escludere è una rivincita del centrodestra così com'è e del resto lo stesso successo elettorale di maggio è dovuto essenzialmente alle sue componenti centriste.
Abbiamo già analizzato e chiarito le ragioni della maggiore utilizzabilità del centrosinistra ai fini delle attuali esigenze delle classi dominanti.
Quello che non possiamo invece escludere è appunto il riemergere di un blocco centrista, il riorganizzarsi insomma del vecchio ceto politico della Dc, del Psi, dei partitini laici in alternativa all'Ulivo. Così come non possiamo escludere che dietro questa riesumazione si celi la rinascita di un "partito americano" da contrapporre al partito tedesco oggi egemone, come il grande protagonismo di Cossiga lascerebbe pensare.
Da questa lotta dagli esiti incerti dipenderà il futuro dei rispettivi ceti politici, non certo quello degli indirizzi di fondo sulle scelte economiche e sociali. Se centrodestra e centrosinistra sono simili nei programmi, votano insieme sulle scelte di politica estera, hanno condiviso i contenuti reazionari delle controriforme istituzionali, figuriamoci quali potranno essere le differenze tra centro e centrosinistra.
Semmai le differenziazioni di fondo potranno emergere col tempo (all'inizio prevedibilmente in modo soft) proprio sulla collocazione internazionale dell'Italia. I comunisti devono prestare attenzione a queste dinamiche politiche per essere in grado di cogliere gli effetti di parziale e relativa destabilizzazione e per le conseguenze che potranno determinarsi nelle principali formazioni politiche ed in modo particolare nel Prc.
La nostra organizzazione ha finora sottovalutato il crescente malessere presente nelle file del Prc per la sua politica subordinata al progetto dell'Ulivo, per le sue oscillazioni tattiche e per il suo opportunismo politico.
Aree sempre più consistenti di militanti abbandonano l'impegno politico, anche perché all'esterno non è ancora sufficientemente visibile il progetto alternativo della Confederazione, troppo timida nell'agire dentro le contraddizioni di Rifondazione Comunista. Se non ci ponessimo come uno degli obiettivi primari il coinvolgimento degli ex militanti del Prc nel nostro percorso politico, rischieremmo di rendere ancora più difficoltoso il percorso aggregativo che ci siamo dati con altre realtà organizzate.
Vi è un nesso inscindibile fra la capacità di rafforzare la nostra proposta politica e l'accelerazione della crisi in Rifondazione Comunista. Dobbiamo dunque assumerci la responsabilità politica di far si che non si disperda un patrimonio prezioso rappresentato da quei militanti delusi dalla devastante pratica politicista del Prc.
L'affossamento della Bicamerale produce inevitabilmente un'accelerazione dei processi politici. Escluse, almeno per il momento, le elezioni anticipate (ma non è certamente sicura la durata regolare della legislatura) si assiste ad un ricompattamento della maggioranza di governo, ad una divisione sempre più accentuata del Polo (al di là delle ricuciture di facciata), ad un'azione dirompente di riorganizzazione del cosiddetto "centro".
Il ricompattamento della maggioranza parlamentare, in risposta all'offensiva di Berlusconi, vede un ruolo estremamente attivo di un Prc che potrà far pesare sempre di più il suo ruolo determinante dal punto di vista numerico.
Sulle contriforme istituzionali sembra affermarsi la scelta del ricorso alla via ordinaria sulla base dell'articolo 138 della Costituzione. Le difficoltà incontrate non arrestano dunque il processo controriformatore e non deve stupire che il Prc, pur ribadendo blandamente la propria contrarietà al presidenzialismo, si sia dichiarato dispiaciuto di dover osservare le macerie della Bicamerale.
Il fatto è che più della forma di Stato e di governo interessano i calcoli sui futuri rapporti politici, secondo la tradizione del più classico e funesto politicismo che ben si accorda (e non è una novità) con il più fumoso dei movimentismi.
Inoltre, legata ai destini della Bicamerale, c'era una legge elettorale certo non sgradita al ceto politico del Prc, un ceto politico che punta essenzialmente alla propria autoconservazione istituzionale.
Non è facile prevedere a cosa porterà questa nuova via alle controriforme, ma non c'è dubbio che con essa si cercherà di completare il passaggio al regime autoritario della Seconda Repubblica.
Parliamo di completamento perché, nei sui aspetti essenziali, viviamo già nella Seconda Repubblica.

Il sistema elettorale maggioritario con tutti gli effetti di esclusione di massa dalla politica, anche nella forma passiva del voto; il rafforzamento degli esecutivi a tutti i livelli; l'omologazione politica e culturale ispirata al pensiero unico del mercato; la regola della concertazione assunta a meccanismo fondamentale ed imprescindibile a difesa della pace sociale e negazione di ogni conflitto: questa è già oggi la Seconda Repubblica.
Scopo della Bicamerale era appunto il completamento di questo quadro: sistema elettorale ancor più maggioritario con l'introduzione di un premio di maggioranza (una legge truffa condivisa da tutto l'arco parlamentare, da An al Prc); presidenzialismo in varie salse; affermazione della prevalenza del privato sul pubblico; federalismo come mezzo per dividere ulteriormente il proletariato ecc.

Per quel che riguarda i rapporti politici le dinamiche sembrano abbastanza chiare. Un Polo senza prospettive nella sua configurazione attuale si divide alla ricerca di nuovi schieramenti da contrapporre più credibilmente all'Ulivo. In risposta a questo pericolo la maggioranza di governo si ricompatta con un preciso ruolo del Prc in questo senso.
L'improvviso miglioramento dei rapporti tra Prc e Pds chiarisce quale sarà l'esito finale dello scontro tra Cossutta e Bertinotti. In questo ultimo anno si sono confrontate nel gruppo dirigente del Prc 2 linee - entrambe subalterne - sullo sbocco da dare alla politica del partito.
Da una parte Bertinotti ha puntato ad una contrattazione permanente con il governo, accentuando i momenti di conflitto, pur nella consapevolezza dell'impossibilità della rottura.
Dall'altra Cossutta, più realisticamente ed anche per prevenire operazioni di "scaricamento", ha cercato di stringere un accordo più forte con l'Ulivo, fino ad un patto di legislatura ed all'ingresso al governo.
Come previsto, il maggior realismo di questa seconda posizione sta avendo successo. I fatti si stanno incaricando di risolvere il dilemma del gruppo dirigente del Prc nell'unica direzione realistica e confacente con gli orientamenti strategici assunti da questo partito con il III congresso.

E' questo un punto di grande importanza. Troppi sono ancora i compagni che, magari con la valigia in mano, esitano ancora a compiere il passo per portare il proprio contributo alla ricostruzione di un soggetto comunista in Italia.
Si tratta di forze significative e comunque per noi importanti. Non ci riferiamo qui alle 2 componenti trotzkyste (una sempre più spesso di supporto alla corrente bertinottiana, l'altra arroccata nella dimensione testimoniale di piccola corrente di opposizione), ma ad una parte dei compagni della vecchia mozione 2 (e non solo) che sono ancora nel Prc pur condividendone sempre meno linea politica ed orientamenti strategici.
La liberazione di almeno una parte di queste forze ci sembra ragionevolmente possibile; il nostro problema è quello di farle convergere - nei tempi che saranno possibili - nel progetto di rilancio di una presenza comunista in Italia, cioè nel processo costituente della confederazione.
Naturalmente un avvicinamento del Prc al governo ha bisogno - almeno sul piano dell'immagine - del passaggio alla cosiddetta "fase 2": dopo i sacrifici lo sviluppo, secondo la classica formuletta della politica dei 2 tempi che non ha mai funzionato.
Non a caso in questi giorni i principali esponenti del governo sono impegnati a fare grandi discorsi sull'occupazione e sul mezzogiorno.
La concorrenza con il nuovo centro impone anche questo: una diversa qualificazione della politica del governo in termini di sviluppo e non solo di rigore.
In realtà alla promessa di 600.000 nuovi posti di lavoro corrisponde la politica sempre più spinta di flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro. Parlano di posti di lavoro ed intendono aumento dello sfruttamento, fino alla sfacciata ma coerente posizione espressa da D'Alema sulla necessità di ulteriori tagli salariali al sud.

Alla luce di questa situazione e dell'esplosione delle lotte dei disoccupati in diverse realtà del meridione, e segnatamente a Napoli e Palermo, risulta quanto mai centrata la campagna referendaria contro il pacchetto Treu che abbiamo sviluppato in questi mesi.

A questa intuizione politica (il no alla precarizzazione del lavoro collegata ad una battaglia per il salario ai non occupati), non ha corrisposto il necessario salto di qualità delle forze comuniste aderenti e non alla CCA.
La campagna referendaria connessa con la mobilitazione contro le agenzie del lavoro interinale e ad una invalidazione nei fatti della legge Bassanini sarebbe stata ed è un terreno fertile per il passaggio dalle enunciazioni verbali ad una efficace iniziativa politica, attorno cui costruire mobilitazione e consenso.
Ciò si è verificato solo parzialmente, sia probabilmente per una nostra insufficiente iniziativa politica nei confronti delle altre forze organizzate, sia per il prevalere nelle aree a noi contigue di posizioni autoreferenziali che - prive di respiro politico - hanno preferito coltivare il proprio orticello, anziché misurarsi su un terreno unificante più avanzato.
Questo atteggiamento settario ha ovviamente influito sulla praticabilità dell'obiettivo delle 500.000 firme.
Tuttavia, nonostante questo dato negativo di partenza, abbiamo deciso l'avvio della campagna come strumento per iniziare a parlare di temi altrimenti rimossi e come mezzo per cominciare a far conoscere le idee e le proposte della confederazione.
Da questo punto di vista la campagna ha dato dei risultati, anche se inadeguati rispetto alle potenzialità e soprattutto alle necessità del momento. Più del dato delle 100.000, (a metà campagna ed escluse quelle dei comuni), firme raccolte nazionalmente è da valutare la risposta positiva registrata nelle realtà dove la campagna è partita con maggior convinzione.
Il bilancio della campagna referendaria non è univoco, è complesso e differenziato nelle diverse aree geografiche con luci significative e difficoltà diffuse.
Oltre alle difficoltà soggettive, peraltro prevedibili, abbiamo dovuto subire il "black-out" di tutti i mezzi di comunicazione di qualsivoglia orientamento politico. Abbiamo assistito ad un comportamento omogeneo (anche questo è il regime) di boicottaggio, quasi ci fosse stato un passaparola. Neppure la semi-occupazione dell'atrio della sede romana della Rai è valsa a smuovere la tv pubblica ed anche il Manifesto non è stato da meno, con il silenzio assoluto sull'iniziativa referendaria (salvo la pubblicazione di un nostro articolo reso incomprensibile da tagli e refusi e una nostra intervista pubblicata con notevole ritardo).
In sostanza la confederazione ha condotto la campagna con la sola adesione utile ed esplicita di circa 30 coordinamenti provinciali dello Slai Cobas e del Movimento Antagonista Toscano.
Tra i dati positivi dobbiamo segnalare l'attivizzazione di forze in diverse realtà del paese, l'attenzione e l'adesione registrata ai tavoli, la realizzazione a Firenze il 29 aprile della prima manifestazione di piazza contro le agenzie del lavoro interinale.
La sottolineatura di questi dati non significa una nostra sottovalutazione delle difficoltà, dei limiti e degli ostacoli politici che oggettivamente hanno reso meno incisiva l'azione, a partire dalle difficoltà incontrate nell'attivare le stesse forze aderenti al processo costituente della CCA.
E veniamo così alla questione centrale del bilancio di questi primi mesi di vita della confederazione, un bilancio che non deve esaurirsi in quello della campagna referendaria, ma che da esso può prendere le mosse.
Analizzando dialetticamente la realtà concreta possiamo vedere l'aspetto positivo, la ricaduta positiva della campagna referendaria.
Gli obiettivi politici dei referendum erano assolutamente corretti a livello politico generale, rivolti contro leggi antipopolari ed autoritarie. Nel quadro del nullismo politico delle altre organizzazioni politiche alla sinistra del Prc possiamo dire con legittimo orgoglio che siamo stati gli unici ad avere tentato di opporsi nei fatti, nell'azione concreta, alla flessibilizzazione del lavoro ed al monopolio legalizzato di CGIL-CISL-UIL nei posti di lavoro.
La volontà rivoluzionaria di uscire tra i lavoratori, di sfuggire al settarismo autoreferenziale che caratterizza storicamente l'estrema sinistra, è il lato migliore, da conservare scrupolosamente per il futuro, della nostra iniziativa.
La campagna referendaria è stato inoltre il nostro primo momento di contatto con le masse, per presentarci e farci conoscere come nemici irriducibili del governo Prodi, dei padroni e della strategia complessiva delle classi dominanti.
La raccolta di oltre 100.000 firme è un primo segnale di rapporto su scala nazionale con la classe operaia, un primo momento di "semina politica", che potrà dare in futuro buoni frutti.
Infine la campagna referendaria ci ha permesso di valutare concretamente la nostra forza e i nostri elementi di debolezza, di valutare la prospettiva futura con un capitale accumulato di conoscenza della realtà e di noi stessi. Senza l'azione continua verso l'esterno è impossibile una tale verifica permanente, ininterrotta ed indispensabile.

Passando dalla campagna su salario e lavoro ad una valutazione più generale dobbiamo riconoscere con franchezza che la confederazione non è decollata se non parzialmente. Riconoscere questa realtà è la condizione preliminare per avviare la discussione su un rilancio fondato su una necessaria riprecisazione politica del progetto.
L'errore più grave sarebbe infatti quello di proporre un rilancio di tipo volontaristico senza un'analisi adeguata delle difficoltà che abbiamo incontrato.
Quando, con l'assemblea del 7 febbraio, abbiamo aperto la fase costituente eravamo ben consapevoli del gap esistente tra l'ambizioso progetto della ricostruzione di un soggetto politico comunista e lo stato soggettivo delle forze comuniste realmente presenti nel nostro Paese.
Le stesse conclusioni di quella assemblea non definivano volutamente modalità e tempi del processo costituente, nella consapevolezza della necessità di verificare concretamente il procedere del progetto aggregativo.
Le vicende di questi mesi hanno messo in luce una situazione ancora più arretrata di quanto pensassimo.
Il fallimento di gran parte delle esperienze sociali, politiche, culturali ed istituzionali che si richiamavano originariamente all'esperienza della Rivoluzione di Ottobre ha pesato e pesa ancora su gran parte dei comunisti, tanto dal punto di vista psicologico, quanto dal punto di vista politico.
Questo fatto, di per se naturale e scontato, porta a riprodurre le tante variabili teoriche e politiche di quell'esperienza, con scarsa capacità di uscirne in avanti.
Anzi, il peso della sconfitta, finisce per irrigidire le varie concezioni teoriche, producendo tanti diversi linguaggi in una Babele inevitabilmente autodistruttiva.
L'idea della confederazione, cioè di un processo aggregativo a "maglie larghe", voleva rovesciare questo stato di cose, indicando la via dell'unità dei comunisti attraverso un percorso aperto senza forzature soggettivistiche.
E' nostra convinzione che questa idea sia tuttora valida; pensiamo anzi che sia l'unica valida in termini di praticabilità e concretezza. Se la confederazione vive oggi questi problemi, le altre ipotesi in campo stanno infatti assai peggio.
Tralasciando le decine di piccoli gruppi autoreferenziali ed impermeabili ad ogni idea aggregativa, non ci sembra che altri progetti marcino credibilmente.
E' sempre meno credibile, come prospettiva comunista, la vita parassitaria in un partito riformista keynesiano come il Prc, e la fraseologia rivoluzionaria non può certo occultare questo fatto.
Non marcia, non è credibile, e comunque porterebbe ad esiti negativi, l'ipotesi di costruzione del partito "dall'alto" così come avanzata dai compagni del Forum dei comunisti.
Non marciano, ed oscillano pericolosamente verso la subalternità al radicalismo parolaio di Bertinotti, le esperienze del sindacalismo extraconfederale e della sinistra antagonista che rifiutano di misurarsi sul terreno della progettualità politica.
Siccome siamo assolutamente contrari allo sciocco detto popolare "mal comune, mezzo gaudio", non ci rallegriamo affatto di questo panorama. Ne traiamo però la convinzione della giustezza della proposta confederativa, riprecisandone però meglio le caratteristiche e le condizioni: non si può più concepire la confederazione come un agglomerato di situazioni che mantengono linee ed agire politico disomogeneo od addirittura contraddittorio rispetto a impegni e scelte assunte nazionalmente.
Su questo punto occorre iniziare un'onesta chiarificazione, poiché mantenere un'ambiguità costante significherebbe di fatto paralizzare il funzionamento della nostra organizzazione.
In termini più generali la correzione che oggi, a nostro avviso, si impone deriva invece da due constatazioni:
1) i tempi di maturazione del processo aggregativo sono troppo lenti e disomogenei;
2) l'avvio di un processo di costruzione di un gruppo dirigente nazionale è ancora in una fase troppo arretrata.
E' dunque necessario prendere atto di queste difficoltà, del resto non impreviste. Se sapremo adeguarci politicamente ed organizzativamente a questa situazione potremo rilanciare la costruzione del nuovo soggetto comunista, da far marciare come proposta aggregativa ampia.
La prima cosa da fare è quella di ripartire da un lato dai contenuti del documento preparatorio dell'assemblea del 7 febbraio, dall'altro da una valorizzazione ed un approfondimento delle diverse esperienze che sono confluite nella confederazione.
E' possibile che nella giusta ricerca di una sintesi si sia perso il fondamentale passaggio del confronto e della conoscenza tra realtà in parte ancora disomogenee.

Da questo punto di vista si impone allora un nuovo e diverso coinvolgimento delle diverse realtà territoriali.
Prima di arrivare alla sintesi è bene che queste realtà, le diverse esperienze politiche, si esprimano liberamente e compiutamente in uno sforzo di arricchimento collettivo del progetto confederativo.
E' questo il punto fondamentale che proponiamo alla discussione oggi: valorizzare le varie esperienze concrete presenti nella confederazione, individuando le forme più utili perché cento fiori possano realmente sbocciare.
A questa scelta deve unirsi la consapevolezza della necessità di tempi più lunghi. Questo non vuol dire arrestare il processo costituente, ma ridefinirlo in maniera convinta e consapevole.
E' compito del coordinamento nazionale indicare gli strumenti per giungere a questa ridefinizione, l'essenziale oggi è chiarirne politicamente la natura.
Contestualmente a questa riflessione, a conclusione della campagna su salario e lavoro, abbiamo la necessità di sviluppare la nostra linea su alcune questioni fondamentali.

Innanzitutto la questione sindacale.
Ne abbiamo affermato la centralità, l'indispensabilità del sindacato di classe per dare gambe al progetto politico, la necessità di un salto di qualità di tutte le esperienze extraconfederali.
Oggi, ce lo confermano le prime positive verifiche, è giunto il momento di agire con più determinazione. Agire in maniera articolata, ma massiccia e organizzata senza alcuna esitazione.
Laddove si è cominciato a farlo i risultati sono stati positivi.
Il monopolio della rappresentanza sindacale di CGIL-CISL-UIL può essere rotto a condizione che si affermi un modello sindacale basato su due elementi fondamentali:

1) un sindacato di classe, democratico e consiliare, fondato sulla verifica costante della rappresentanza dei lavoratori, che sappia rompere la pratica concertativa oggi dominante. A questo proposito è necessario dare avvio ad un processo a tempi medio-brevi, tendente a far assumere ai compagni aderenti alla confederazione ancora iscritti, per vari motivi, alla Cgil una scelta di rottura politica con questa organizzazione.
Oggi è sempre meno politicamente comprensibile una presenza dei comunisti nei sindacati confederali. La loro deriva corporativa e la trasformazione della loro natura si è ormai compiuta e quella che si definiva "sinistra sindacale" non costituisce più un punto di riferimento e di raccolta di esperienze alternative alle politiche concertative di Cgil-Cisl-Uil.
Per essere più chiari: oggi è venuta meno anche quella "positiva ambiguità" che sembrava caratterizzare alcune anime della sinistra sindacale, basata sulla mai esplicitata convinzione che nel momento in cui si sarebbe realizzato il "Grande Sindacato Unico", la sinistra sindacale avrebbe provocato una scissione verticale nel sindacalismo confederale.
Non è più così: la sinistra sindacale della Cgil è ormai guidata da un ceto politico che svolge un ruolo di copertura a sinistra di tutte le scelte moderate, corporative ed antidemocratiche che il sindacalismo di stato sta assumendo. Per fare un solo esempio, basti ricordare che il capitolo sulla rappresentanza sindacale della legge Bassanini è stato contrattato e sottoscritto dal massimo esponente di questa sinistra sindacale.

2) Un sindacato impostato in un'ottica non minoritaria che eviti ogni sovrapposizione con l'organizzazione politica.
Nel concreto dell'attuale situazione italiana questa impostazione si traduce nell'esperienza e nel percorso dello Slai Cobas. Ne deriva quindi l'indicazione di costruire Cobas Slai ovunque possibile.
E' questo un passaggio non facile, ma possibile; non sufficiente, ma necessario.

Il versante sindacale è al tempo stesso quello più forte e quello più debole dell'attuale regime.
E' quello più forte perché CGIL-CISL-UIL costituiscono la componente - una e trina - più organica al modello corporativo su cui si regge la stessa costruzione imperialista. Che il 1 maggio sia stato celebrato all'insegna dell'euro dovrebbe pur significare qualche cosa.
Al tempo stesso, però, questo gigante con 9 milioni di iscritti si regge ormai più sul sostegno governativo e statale, sia in termini di credibilità politica che di contribuzione economica, che sulla rappresentanza reale dei lavoratori.
La gestione dei fondi pensione e delle casse mutue integrative trasforma ulteriormente le confederazioni sindacali in soggetti finanziari che lucrano sugli arretramenti sociali prodotti dalla loro stessa politica.
In questo quadro la domanda di un nuovo sindacato di classe è forte e va raccolta, sapendo che si tratta di una sfida oggettivamente matura.
Raccogliere questa sfida non si esaurisce ovviamente nella costruzione dello Slai Cobas; ben più complessa è la questione. Ma il punto di partenza, considerati gli attuali limiti delle altre organizzazioni extraconfederali in campo, non può che essere questo.
Quando diciamo costruzione delle strutture autorganizzate, intendiamo costruzione reale di sindacato e di sindacalismo di classe nei luoghi di lavoro. Costruzione cioè di Cobas capaci di organizzare la pratica dell'obiettivo, la resistenza e la lotta dei lavoratori, strumenti di attivizzazione e di autorganizzazione e non di mera testimonianza.

Altra questione sulla quale dobbiamo fare il punto è quella della costruzione del blocco sociale antagonista.
L'azione di frammentazione del lavoro salariato ha raggiunto lo scopo fondamentale di una crescente passivizzazione della classe operaia. Di questa passivizzazione sono responsabili in primo luogo le direzioni sindacali e quelle politiche della sinistra.
Il recente contratto dei chimici, con la formalizzazione di un 25% di forza lavoro precaria e la flessibilizzazione spinta degli orari che porta ad ottenere lavoro straordinario pagato come ordinario, è il modello al quale si ispirerà la politica sindacale nei prossimi anni.
Nello stesso tempo le lotte dei disoccupati sembrano avvenire nel vuoto, a distanze siderali dal grosso del movimento operaio. Le crescenti divisioni territoriali, anche senza bisogno dell'eccessivo zelo di D'Alema, fanno il resto.

Con i referendum abbiamo tentato una prima risposta sul tema del lavoro interinale, tema quanto mai emblematico di questa situazione. Finita la campagna referendaria proponiamo di riprendere questo tema sul terreno della mobilitazione di piazza contro le agenzie del lavoro interinale dando seguito, in tutte le città dove ne esistano le condizioni, alla manifestazione di Firenze del 29 aprile.
Più in generale abbiamo bisogno di tradurre in termini programmatici i contenuti del documento di febbraio.

La ricostruzione del blocco sociale antagonista passa attraverso la capacità di saper organizzare i lavoratori e i nuovi soggetti sociali, partendo dai loro bisogni e costruendo la loro unità su obiettivi unificanti. Perché il comunismo non è solo un obiettivo, ma anche la pratica quotidiana, è come rispondiamo all'attacco dei padroni, sono le scelte entro le quali ci muoviamo, è la nostra capacità di aggregare le forze e le situazioni antagoniste, e' la nostra capacità di essere presenti dove c'è conflitto e quella di far emergere le contraddizioni, di intervenire dove i bisogni del proletariato devono essere soddisfatti e gridano giustizia (nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, nei quartieri popolari, nelle scuole, ecc.) In un reale radicamento nel sociale, con l'obiettivo di recuperare un punto di vista comunista attorno al quale ricostruire il blocco sociale anticapitalistico, con l'impegno di costruire luoghi dì aggregazione, un impegno che non può che andare nella direzione di un forte rilancio dell'opposizione a questo governo. Noi proponiamo a tutte le forze comuniste e antagoniste un terreno comune di riflessione e di iniziativa politica, basato su obiettivi e tematiche politiche concrete. Occorre far prevalere i contenuti politici rispetto agli schieramenti. In tal modo si favorisce l'organizzazione del conflitto sociale e della mobilitazione. I movimenti non nascono per decreto dì questa o quella organizzazione politica, ma in relazione alle contraddizioni sociali prodotte dalla ristrutturazione capitalistica e ai livelli di coscienza storicamente determinati. Si rende quindi necessario predisporre gli strumenti politici e organizzativi in grado di analizzare correttamente la realtà e di gestire il conflitto, indirizzandolo verso soluzioni che dislochino i rapporti di forza a favore delle classi sfruttate.

Occorre lavorare ad una proposta organica e precisa che aggreghi intorno ad una piattaforma programmatica sul terreno rivendicativo di classe. La richiesta di aumenti salariali generalizzati, la detassazione dei redditi da lavoro dipendente e delle pensioni medio-basse, la difesa e il rilancio dello stato sociale, sono il terreno attorno cui costruire unità d'intenti e mobilitazione. Esercitare iniziativa politica su questi obiettivi significa percorrere il cammino del radicamento sociale e definire in modo più articolato la nostra progettualità. La riorganizzazione del blocco sociale attraverso la costruzione di strumenti di contropotere contrapposti alle politiche istituzionali richiede un lavoro paziente a partire da una diversa capacità di costruzione e di stimolo di tutte le realtà di movimento.

In quest'ottica, una proposta da sostenere con convinzione, quantomeno per verificarne appieno le potenzialità, come sperimentazione di un processo aggregativo è quella delle Camere del Lavoro Sociale.
Il documento proposto dai promotori ipotizza "Un istituto che si propone di costruire identità ricompositiva, attraverso l'organizzazione di conflitto e vertenze - sia metropolitane che regionali - dal salario garantito al minimo salariale fino alla retribuzione delle attività di inserimento lavorativo, quali le scuole di formazione professionale. La conduzione di azioni di difesa e tutela della forza lavoro irregolare, a partire da quella immigrata e femminile. La creazione di un ufficio legale, l'apertura di uno sportello di orientamento al lavoro, l'approntamento di un numero verde a cui denunciare casi di sopruso e molestia, il controllo del turn-over a partire dai grossi enti con assunzioni a tempo indeterminato. La costruzione di comitati utenti/lavoratori dei servizi (ferrovie, ospedali, aziende consortili) per imporre servizi collettivi a prezzi politici.
Su queste basi riteniamo che le realtà locali della CCA debbano verificare la possibilità di sperimentare modi e luoghi di aggregazione, assumendo come principale terreno unificante quello del salario.

Per quanto riguarda il piano più strettamente politico proponiamo di lanciare una forte campagna sull'Europa, tanto più necessaria oggi nel nostro Paese in ragione dell'assenza di ogni opposizione su questo tema.
L'Europa dei banchieri non ha opposizione: come può un progetto comunista non ripartire da qui?
Proponiamo dunque di sviluppare una campagna di (contro)informazione sui temi europei, con iniziative locali e nazionali, lavorando in prospettiva alla costruzione di relazioni internazionali che ci consentano di superare l'attuale regressione dei comunisti a dimensioni nazionali oggi più anguste che mai.
Non solo l'Europa non trova opposizione. Lo stop temporaneo alla controriforma istituzionale non è certo il frutto di un'opposizione che non c'è, bensì delle contraddizioni interne al quadro politico.
Ma in assenza di opposizione non è difficile prevedere un rilancio delle controriforme. Il dibattito tra le forze politiche non è pro o contro le "riforme", ma sul come farle (assemblea costituente, articolo 138, referendum).
Su questo terreno come comunisti siamo in tremendo ritardo, un ritardo che non possiamo pensare di colmare organizzando qualche dibattito (per quanto - ovviamente - sempre auspicabile).
Possiamo invece recuperare parte di questo ritardo con iniziative di mobilitazione di immediata visibilità. Perché non organizzare, per esempio, manifestazioni di contrapposizione ai tavoli referendari di Di Pietro? Al di là del contenuto specifico del referendum sulla quota proporzionale riusciremmo forse a far emergere una voce di opposizione alla costruzione della Seconda Repubblica.

Alle recenti elezioni amministrative la CCA ha presentato una propria lista solo alle comunali di Lucca, raggiungendo un risultato non esaltante, ma dignitoso: l'1,8%.
Questa presentazione ha di fatto aperto una prima discussione al nostro interno sull'uso delle istituzioni e in genere del momento elettorale.
E' evidente che questo terreno non è il nostro. L'analisi sulle istituzioni autoritarie della Seconda Repubblica è chiara e non c'è che da ribadirla. Nel documento preparatorio dell'assemblea di febbraio abbiamo parlato di un uso esclusivamente strumentale delle istituzioni.
Questo strumento non potrà mai essere quello principale ed il suo utilizzo andrà sempre valutato in rapporto alle priorità generali del nostro progetto cui deve essere sempre subordinato.
Ma come tutti gli strumenti, perché sia tale, deve essere - laddove è possibile, quando è opportuno - utilizzato.
L'esperienza di Lucca è da valutarsi positivamente, perché si è dimostrata possibile una campagna elettorale basata appunto su una concezione strumentale del momento elettorale e perché la CCA ne è uscita rafforzata politicamente ed organizzativamente.
L'ultima questione che intendiamo affrontare è quella dell'organizzazione politica, degli strumenti più idonei per rilanciare con forza il progetto confederativo.
Abbiamo già parlato della necessità di valorizzare al massimo le esperienze territoriali. Se questa è - lo ribadiamo - la scelta fondamentale dell'oggi, dobbiamo però porci la questione del livello nazionale della confederazione.
E' nostra opinione che senza una chiara scelta su questo punto si rischi di arenare il percorso politico che abbiamo intrapreso.
Alla politica dei "cento fiori" va affiancato dialetticamente il momento della centralizzazione, una centralizzazione limitata e chiaramente circoscritta, ma assolutamente necessaria per consentire il materializzarsi del processo di aggregazione e di omogeneizzazione politica.
Resta perciò centrale il ruolo del coordinamento nazionale, che sia espressione reale della nostra organizzazione. La questione andrà affrontata in termini più precisi quando inizieremo a preparare la 1 assemblea congressuale, ma già da oggi è utile indicare questo punto come fondamentale.
Si pone invece in termini più urgenti la necessità, già individuata dal coordinamento nazionale del 1 marzo, di passare ad una struttura nazionale con precise caratteristiche di operatività. Occorre insomma superare l'estrema provvisorietà di questi mesi per garantire un riferimento nazionale più preciso e adeguato alla delicatezza della fase attuale.
Riteniamo perciò indispensabile la costituzione di una struttura operativa a garanzia di una gestione quotidiana del processo aggregativo.

Proponiamo inoltre che il coordinamento nazionale decida di affrontare il problema degli strumenti di informazione. E' questa una delle più gravi carenze che la CCA ha registrato in questi mesi e che va superata quanto prima.
Considerata la scarsità di mezzi pensiamo che si debba lavorare ad un giornale di battaglia politica che consenta la circolazione delle informazioni e delle idee e che arrivi ad alcune migliaia di compagni.

Come deciso è stata predisposta la carta d'adesione. Si tratta ora di lanciare con forza la campagna di adesione al processo costituente della confederazione, costruendo iniziative nazionali e locali per utilizzare questo importante passaggio come occasione per sviluppare con decisione il processo aggregativo.
Ma la scelta di aprire una fase costituente pone alla CCA l'esigenza di procedere, insieme ed organicamente al terreno dell'iniziativa politica, alla definizione di un proprio impianto teorico e ad un proprio terreno strategico.
In questa fase costituente si devono, in altre parole, porre e definire, a partire dal documento di base sul quale si è costruita la Confederazione e si è sviluppata la sua prima assemblea nazionale a Firenze il 7 febbraio, le tesi politiche su cui misurare il progetto di fondazione di un nuovo soggetto politico comunista.

Il documento del 7 febbraio va dunque sviluppato sia sul piano teorico (soprattutto nel senso di una "rifondazione" comunista che faccia seriamente i conti con l'intera vicenda del comunismo novecentesco), che su quello della ricerca di una prassi rispondente agli elementi di fondo dell'analisi (crisi del compromesso sociale, costruzione del conflitto fuori e contro le istituzioni, costruzione degli strumenti del contropotere).
La ricostruzione di un soggetto comunista rivoluzionario, che non sia semplice autoproclamazione verbale, deve fondarsi su questi 2 aspetti.
La massima valorizzazione delle esperienze territoriali che oggi proponiamo ha senso solo nell'alveo di questa comune e difficile ricerca senza la quale nessun progetto comunista avrebbe significato.
Su questo compito di riflessione ed elaborazione di un impianto teorico-strategico riteniamo fondamentale il lavoro della commissione politico/teorica nazionale.
Questo percorso di riflessione e di studio presenta la necessità di configurarsi sia in una dimensione "interna" all'organizzazione che sia in grado di coinvolgere l'intera sua struttura a partire dai comitati di base, ed in questo senso è stato prodotto e distribuito un bollettino (Note Book) con i primi materiali informativi, sia "esterna", attraverso l'organizzazione di seminari e convegni nazionali a cui chiamare a partecipare intellettuali e soggetti interessati al nostro terreno di dibattito, iniziando con un primo convegno che si terrà intorno alla fine di settembre sul tema della "crisi del riformismo".

18 giugno 1998

Giorgio Riboldi

Leonardo Mazzei