LA SINISTRA DEGLI ANNI ’70, I PENTITI E MARINO

 

Diffamate, diffamate qualcosa resterà”
                                                Voltaire

 

Il ventennio del 1968, oltre ad aver costituito per molti l’occasione di riproporre il loro voyeurismo politico, con tutti gli ingredienti di superficialità, parzialità e banalità che ne conseguono, ha rafforzato anche la tendenza a voler interpretare, analizzare e spiegare il periodo e le fasi politiche, che vanno dal 1968 al 1980, attraverso la lente deformante dei sedicenti pentiti o dei falsi dissociati. (Dissociati  da che? Dalla propria vita? Dalla propria famiglia? Dal proprio pensiero? Da una mal compresa e mal vissuta ipotesi politica? Mah!).

L’esempio più recente che va in questa direzione è costituito dall’arresto degli ex militanti di L.C. Bompressi, Pietrostefani e Sofri, accusati dal pentito Marino di essere i mandanti e gli esecutori materiali dell’omicidio Calabresi.

Nella vasta gamma dell’infamità e degli infami (intendendo per infame colui che vuole dare cattiva fama ad altri o ad altro), che hanno costellato la storia giudiziaria di questi anni, il pentimento di Marino si è espresso, per certi versi, con una certa originalità. Infatti, rispetto ai clichés comportamentali di altri eccellenti pentiti, ormai divenuti logori e non più facilmente spendibili da parte dei mass media, l’auto-accusa presente nella sua deposizione avrebbe potuto costituire una importante novità dal punto di vista della morale del pentitismo.

Di fatto così non è stato perché il Marino non si limita alla sua auto-accusa, con conseguente presumibile espiazione del delitto, ma denuncia immediatamente i suoi ex compagni come i massimi responsabili in tutta la vicenda e stimolato dai giudici-interlocutori tenta di riaprire un capitolo di storia politica che secondo la sua ricostruzione di infame viene ridotta ad episodi di piccolo cabotaggio comportamentale, o a isolati fatti di violenza individuale.

Ancora una volta è stato riprodotto lo stesso meccanismo.

Si è tentato di ridurre anche l’esperienza di L.C., dopo quella di altre organizzazioni, ad una serie di fatti illegali con finalità del tutto estranee alla lotta per il cambiamento e la trasformazione.

E’ importante sottolineare come questo sia l’obiettivo che si sono prefissi pervicacemente i pentiti, in sintonia con ambienti politici e della magistratura che vorrebbero cancellare dalla storia quindici anni d’esperienze personali e politiche.

Ma nonostante la peculiarità presente nel caso Marino-Calabresi, la tesi accusatoria non reggerà a lungo; essa è negata dalla storia stessa di L.C., complessa e contraddittoria, ricca di rigore morale, raramente inficiata da miserie umane e morali di militanti come il Marino. Essa è negata dalla mancanza di riscontri obiettivi validi e da riferimenti precisi. Insomma, ci si è trovati di fronte al classico “la mia parola contro la tua”, non a lungo sostenibile né come elemento probatorio, né come elemento accusatorio, neppure in un sistema giudiziario che largo spazio ha dato e dà ai pentiti d’ogni genere.

E’ comunque importante ricordare che il tentativo di riaprire il caso dell’omicidio Calabresi, addossando la responsabilità a militanti legati a L.C., è ricorrente nel mondo del pentitismo.

Agli inizi degli anni ’80 alcuni di loro tentarono maldestramente di fornire “suggerimenti” alla magistratura sul caso in questione.

Parecchi individui [1] che avevano solo marginalmente bazzicato i gruppi della sinistra negli anni ’70, al momento del loro arresto, per legittimare le loro “verità” e dare sostanza alle loro deposizioni, riferirono ai giudici imprecisioni generiche e voci “da bar”, che tendevano al coinvolgimento di L.C. nell’assassinio di Calabresi. Tutti questi pettegolezzi non furono considerati e caddero giustamente nel nulla.

Ora, proprio a partire dall’esperienza di questo ennesimo episodio demolitore della memoria storica (il caso Marino), la sinistra dovrebbe incominciare a contrastare con più efficacia la cascata di chiacchiere superficiali che hanno accompagnato la lettura di questo ventennale.

Fino ad ora, rari o nulli sono stati gli sforzi per analizzare e capire a fondo i passaggi che vanno dal 1968 al 1980: anni complessi, vissuti diversamente dagli stessi protagonisti che si trovarono ad iniziare e quindi vivere quel tentativo di processo di trasformazione della società. Anni che hanno visto pratiche di vita e scelte rigorose, ma anche molte, troppe superficialità. Credo che proprio nella troppa diffusa superficialità, nelle facilonerie ideologiche, nella scissione tra teoria e prassi e nella scarsa diffusione della pratica del pensare vada ricercata, tra le altre cose che più ci premono, anche l’origine e la causa del fenomeno del pentitismo.

E’ necessario iniziare una riflessione seria sul recente passato, per non lasciarlo all’interpretazione burocratica della magistratura e a quella alienata dei pentiti.

                                                                                                                     Giorgio Riboldi

Milano, novembre 1988

[1] Per scelta di chi scrive si è evitato (a parte il caso Marino) di indicare le generalità dei pentiti, cui si fa cenno, in quanto la molla del protagonismo frustrato ha sicuramente avuto un ruolo essenziale nelle loro scelte. Pertanto, a distanza di anni, ridestare l’attenzione su di loro, citando il loro nome, avrebbe potuto costituire un’ulteriore insperata pubblicità a loro favore.